Il Gesto e la Forma

Dopo circa quarant’anni di pratica della Disciplina della Spada giapponese (Iai-dō), sentiamo di poter tirare qualche (provvisoria) somma esponendo il più succintamente possibile, e per quel che lo permettono le parole, una profonda convinzione, coinvolgente la mente e il corpo, o, meglio, la mentecorpo (shinjin). Tale convinzione, scaturita da un sentire e comprendere con il corpo (tai ken), concerne il gesto e la forma, che costituiscono tanto il motivo dell’impegno nella pratica (shugyō) quanto, nell’infinito percorso di perfezionamento, delle altrettanto infinite tappe della Via. Aggiungiamo subito che, per quanto ci riguarda, la Disciplina dell’Azione, qual è quella della Spada giapponese, è stata costantemente abbinata alla Meditazione Seduta (Seiza-Mokuso), la quale, per l’immobilità e il silenzio che la caratterizzano, ne costituisce il necessario contraltare contemplativo. Di fatto, l’azione non scaturente dalla contemplazione degrada in agitazione, alla stregua della circonferenza (il mobile) che è inconcepibile senza il centro (l’immobile) che ne sia il principio. Ragion per cui non possono darsi alcun vero gesto e alcuna vera forma – quindi nessun vero Iai – che prescindano dall’immobile principio (ri), ossia il non luogo (musho) che ne è la vera scaturigine, e nei confronti del quale è indispensabile nutrire una fede incondizionata e indefettibile.
Etimologicamente, gesto viene dal latino GESTUS, participio passato di GERERE fare, operare, diportarsi, e indica l’atto o movimento della persona. Dal canto suo forma, dal latino FORMA e greco MORPHÉ, indica la figura, il plasmato, il plastico, il modello. Quindi gesto e forma attengono alla dimensione estetica, che nella Disciplina della Spada giapponese – come in tutta la Tradizione nipponica – include il sentimento del bello, parola le cui accezioni nella cultura del Sol Levante sono molteplici e fra le quali prediligiamo bihaku美白 (bi美: bello, haku白: bianco) attenente alla bellezza femminile, specificamente al candore della pelle come canone estetico associato ai concetti di purezza e nobiltà.

E difatti, la bellezza del gesto e della forma, nel suo armonico fluido vigore, sia nel movimento che nell’immobilità, è propriamente una grazia muliebre, un’espressione pura e nobile dell’energia fluente (kinagare), la quale, nel suo maturare corporeo, si può pensare simile al delicato sbocciare del fiore.

Notiamo come nel presente contesto la marzialità (bu) resti in secondo piano per il prevalere della compassione/gentilezza (nasake情け), la cui valenza è decisamente muliebre; e, d’altro canto, il termine nasake essendo composto dal radicale di cuore, animo (心kokoro) e dall’ideogramma che indica il colore blu chiaro (青ao), può ben intendersi come “uno spirito chiaro”, ciò riconducendo a bihaku e quindi all’etereo candore della bellezza femminile, da ciò potendosi intendere il profondo significato, si direbbe quasi androginico, di bushi no nasake: la compassione/gentilezza del guerriero, che, proprio per questo, è anche poeta (shijin).

Sull’alta vetta
Il cappuccio candido
Fresca estasi

In senso lato, non v’è gesto che non assuma una forma e non v’è forma che non si risolva in un gesto, talché “gesto” e “forma” risultano termini indicanti un’assai stretta complementarietà che nella Disciplina della Spada giapponese (come in tutte le Vie marziali) corrisponde al kata, tale termine implicando, secondo lo spirito nipponico, un orizzonte a trecentosessanta gradi, non limitato all’esercitarsi con la spada (keiko) né al luogo dell’esercizio (dojō), bensì permeante ogni aspetto della vita e perciò tendente all’educazione integrale del praticante quale uomo retto (gishi, antica parola del Bushidō), sensibile alla bellezza che lo circonda e nel contempo lo pervade rendendolo una bella persona (utsukushi no ito). Di qui la peculiare attenzione riservata dalla Tradizione nipponica all’addestramento formale/gestuale che mira alla realizzazione del gestus, quindi alla guarigione dalla gesticulatio, cioè dall’agitazione gestuale, indice di un assetto interiore instabile e confuso, ovvero sconnesso dal ri, cioè dal principio che è la fonte dell’armonia (wa).

Il corpo, esecutore del gesto e della forma secondo un opportuno canone, è ovviamente l’elemento indispensabile alla pratica. Come la mente, anche il corpo è uno specchio. Come la mente, anche il corpo ha una memoria e una capacità riflettente (quindi anche un’intelligenza?) il cui baricentro risiede nel ventre (hara). L’istruzione tecnica, morale e spirituale concernente la pratica è dapprima recepita concettualmente dallo specchio della mente, ma poi è nello specchio del corpo – di tutto il corpo – che essa ha da riflettersi: il precetto racchiudente l’istruzione ha da “solversi” in quanto concettuale per “coagularsi” in quanto corporale, diventando così comportamento (rei), ciò operandosi attraverso la fluidità (nagare) del gesto e della forma.

Riguardo alla bellezza, si tratta, come già osservato, di una grazia muliebre, vigorosa e fluida che viene liberata grazie alla reiterazione della forma e del gesto che muovono dal silenzio immobile contemplativo e che a loro volta ne sono il ricettacolo. Bellezza muliebre che – ecco il punto focale del presente scritto – si avverte non solo interiormente ma anche fisicamente quale effervescenza di gioia, dal francese antico joie, derivazione dal latino gaudium. Gioia permeante integralmente il corpo, nonché latrice dell’ispirazione che trasfigura la visione del mondo, delle persone e delle cose: visione tanto più nobile quanto più compassionevole e gentile. Tanto più virile quanto più muliebre.

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