Cambiare d’abito
4 Ottobre 2020

Lo spogliatoio del Dojo (Datsujo) non è lo spogliatoio di un “centro fitness” e ancor meno di un centro sportivo. Nello spogliatoio del Dojo il CAMBIO D’ABITO prima dell’inizio della lezione è già lezione, è già esercizio, anzi rituale, ed assume un significato speciale: si smette l’abito ordinario per indossare l’abito dell’Arte col quale si accede nel Dojo, il “Luogo della Via”. Non è quindi senza importanza che jo di Do-jo significhi, sì, “luogo”, ma provenga anche«dal giapponese antico ageru che significa costruire, elevare, edificare, offrire un regalo, fare un’offerta, un sacrificio rituale […] nel buddismo, particolarmente nelle correnti dello Zen, dojo viene definito con il termine sanscrito bodhimanda, il “luogo dell’edificazione”.
Manda, che ritroviamo nella parola mandala, significa recinto e per estensione cerchio o strada. Bodhi, da parte sua, significa originariamente “costruire i quattro stadi della Via suprema” (boghi aryamarga) e per estensione arrivare al risveglio. Bodhimanda, il dojo, è dunque una volta ancora il “luogo sacro della costruzione della via”, o il “luogo del risveglio”».
Il dojo – luogo di edificazione della Via, Arti d’Oriente ottobre 1999.

Se la lezione inizia già nello spogliatoio, allora il cambio dell’abito è un kata, una forma rituale integrante dell’Arte: non si può accedere nel Dojo e praticare l’Arte se non ci si libera delle abitudini del vivere profano: “abitudine” deriva dal latino habitus, abito appunto, e quindi nello spogliatoio del Dojo la lezione inizia con lo spogliarsi degli abiti-abitudini profane per rivestirsi dell’abito cerimoniale, l’abito del Saho, cioè del NUOVO comportamento esteriore, fatto di gesti composti ed eleganti, e quindi del NUOVO atteggiamento interiore, completamente purificato da pensieri e parole inutili e banali. Di conseguenza, l’Abito ha da essere in perfetto ordine, cioè pulito, stirato e di misura convenevole al Praticante. Non per nulla Dogi significa l’Uniforme (gi) della Via (Do), ossia l’accuratezza dell’abbigliamento. Uni-forme che rende tutti uguali.

Come già accennato, lo spogliarsi del vecchio per rivestirsi del nuovo è un kata, un rito, e “rito”, come anche “arte” significa – dalla radice sanscrita rta – ordine, armonia. È quindi opportuno che dal momento in cui si entra nello spogliatoio (e perciò ha inizio la lezione) si assuma un atteggiamento adeguato all’occasione, ricordando sempre che lo “spogliarsi” è un “morire” a cui segue un “rivestirsi” e perciò un “rinascere” che rende degni di accedere nel Dojo e di praticare l’Arte. Pertanto, deve essere chiaro che in assenza di tale atteggiamento la lezione non potrà dare risultati apprezzabili.
In quanto kata-rito, il cambiarsi d’abito è un atto solenne che richiede il RACCOGLIMENTO SILENZIOSO unitamente alla PRESENZA A SE STESSI. L’osservanza di questi due precetti tradizionali è di estrema importanza poiché favorisce (e virtualmente realizza) la coordinazione mente-corpo, punto di partenza e di arrivo dell’Arte. Essi, di concerto, costituiscono uno STATO DI VEGLIA che, per cosi dire, “mette in pausa” il flusso torrentizio e incontrollato dei pensieri e delle immagini che relegano il Praticante nell’inconsapevolezza, e che, più di quanto non si creda, comportano sofferenza.

È necessario evidenziare come fra gli abiti più “stretti”, cioè fra le abitudini più radicate delle quali è difficile spogliarsi, vi sia il PARLARE, cui seguono immediatamente la DISPERSIONE DI ENERGIA e la DISTRAZIONE .
È bene rendersi conto come l’aprirsi della bocca ed il fuoriuscire delle parole rispondano ad un ISTINTO che – diventato ormai un ABITO-ABITUDINE – scavalca con irrisoria facilità sia la coscienza che la volontà. Di più, è opportuno che il Praticante si renda conto di come l’istinto a parlare, come tutti gli istinti, sia dotato di vita propria, si direbbe quasi di una propria volontà di affermazione, ciò costituendo un primo ed importante spunto per l’esercizio dell’auto-osservazione.
Pertanto il Praticante ha da chiedersi costantemente: “Sono io che “cavalco” l’istinto diventando più forte? Oppure è lui che regolarmente mi sorprende, mi “disarciona” e mi indebolisce?». Non sono domande di poco conto, che ci si dovrebbe porre per ogni tipo di istinto, ammesso e non concesso che l’uomo possa avere piena coscienza di tutti gli istinti che, alla lettera, lo pilotano. Ed è appena il caso di precisare che qui si sta trattando della Via che conduce alla vera libertà:
«Il primo movimento dell’uomo che cerca la Via deve essere quello di spezzare l’immagine abituale di se stesso […] Tutti gli esercizi di sviluppo interiore saranno paralizzati se non si rompe il guscio-limite che la vita quotidiana forma intorno all’uomo».
Leo, Barriere in Introduzione alla magia (ediz. Mediterranee).

Abito… abitudine… istinto… guscio-limite… un po’ come il dio marino Glauco descritto da Platone nella Repubblica, talmente ricoperto di incrostazioni (le abitudini) da non lasciar più scorgere e brillare l’antica, aurea natura divina; e poiché le sue membra sono coperte di conchiglie, alghe e sassi, egli dovrà incominciare la sua purificazione scuotendo via – appunto spogliandosene – tale materiale superfluo.
Del resto il Dojo è una palestra, in latino PALAESTRA e in greco PALAISTRA da PALE lotta (onde PALAIEIN lottare), propriamente lo scuotere, il crollare (“crollare” è sinonimo di scuotere e non di venire giù, rovinare, come si dice comunemente, ad esempio, di un palazzo).
Dal che se ne deduce agevolmente che il Dojo è un agone, un crogiolo, insomma un ambiente in cui, a partire dallo spogliatoio, si persegue un trans-formazione a mezzo di combattimento, morte e rinascita.
