Elogio del “Bel gesto”

O DELL’AMORE PER LE BATTAGLIE PERSE

Deliziosamente in linea col carattere del Bushi

Da pangea.news – 10 ottobre 2022

Un bel morir tutta la vita honora: dobbiamo incidere questo verso di Petrarca sulla cuspide dei nostri atti. Tutta la vita si coagula nel momento estremo, quello della morte. La ‘bella morte’ è un onore concesso dagli dèi: il cadavere, allora, sorretto da canti, muore immortale. Protesi al rischio, diamo a ogni nostro gesto il crisma dell’indimenticabile.

È sufficiente un istante per capovolgere una vita. Un uomo – lo certifica Dante – può convertirsi, in totale abbandono, mentre spira, e raggiungere la salvezza. Una vita infame può essere riscattata dall’agnizione immediata, brusca – tutto accade con la ferocia di un assalto – : osserva come muta il felino dal riposo a quando salta. Secondo il buddhismo Chan e Zen l’illuminazione, bodhi, è improvvisa. Ci si disciplina come si razzola la stanza e si lucidano le stoviglie: in attesa che l’ospite squassi tutto. Per alcuni, poi, l’illuminazione accade senza preliminari. Dobbiamo sorvegliare i nostri gesti fino al punto dell’estrema naturalezza, come se ci sdraiassimo su una corda. Un bel morir è il romanzo di Alvaro Mutis che chiude la trilogia dedicata a Maqroll il Gabbiere, figura cupa, conradiana, di uno travolto dall’Amazzonia del destino.

“Prima di inoltrarsi negli estuari, ci fu per il Gabbiere l’occasione di passare in rassegna alcuni istanti della propria vita, da cui era scaturita, con regolare e gioiosa costanza, la ragione dei suoi giorni, la sequenza di motivi che vinceva sempre il sereno richiamo della morte”.

Uomo di mare colto dalla  disperanza, figlio di Caino, apolide dei sentimenti, Maqroll – di cui possiamo leggere le gesta anche nell’antologia poetica Summa di Maqroll il Gabbiere – imbraccia, per connaturato senso della sfida, solo imprese perdute, amori sfacciati e spacciati, azioni incongrue, infeconde, di cui egli solo conosce il moto, stretto tra dissipazione e santità. Già: vogare tra l’oro dei nostri gesti, certi che ciascuno di essi può essere l’ultimo, il sigillo, il testamento. Solo i maestri sono così attenti e attuano pienamente la vita: lavano i piatti con la stessa dedizione con cui, a spada sguainata, si gettano nella mischia; comprano il pane come s’impegnano in una pittura, decidono le sorti di un’impresa, di una azienda. I gradi di una grande azione non li dà il mondo – che tu sia un potente o uno straccione non vale –, ma una specie di aristocrazia personale, implacabile, una beatitudine più spietata.

Proprio quando il tempo ci obbliga a una obbedienza ben più profonda di quella ordinaria e misura ogni atto con le ganasce del reddito, dell’utile, del consono e del comodo, occorre scegliere il ‘bel gesto’. Il beau geste, il gesto privo di gesta, fine a se stesso, senza altro utile che la bellezza, che fa risuonare una mistica dello splendore. Ingiustamente dileggiato da chi ha sostituito l’eroe con il divano – “azione audace o lodevole, degna di generale approvazione, o anche, spesso, atto buono in sé, ma compiuto solo per riscuotere l’ammirazione altrui e per desiderio di pubblicità”, dice la Treccani –, il bel gesto scompiglia l’ordinario, è la capriola in mezzo alla piazza, l’estro del mangiafuoco, di chi trae fate dalle fiamme e ride al contrario; lo svergognato che con ingenua sagacia crede al miracolo, all’incantesimo, e brutalizza in stupore il grigiore quotidiano. Rischia di esser preso per cretino, per pavone, per faccendiere del proprio ego, ma lascia tutti attoniti, chi pratica il bel gesto, quando costoro si accorgono che egli non ha altro fine che il delirio dell’istante, un destino dell’ora o mai più, la gloria del re provvisorio, dell’istrione giunto sulla vetta per poi precipitarvi. Quanto è salutare il ‘bel gesto’, slacciato da ogni criterio di mercato: imprevedibile perciò senza prezzo.  

Non per forza il ‘bel gesto’ dev’essere in bella vista, alla benevola evidenza altrui. L’ascesi del ‘bel gesto’ è risolverlo agli occhi di Dio, dei celesti, degli assenti; impetrare l’attenzione perfino dei morti. Come il Beato Angelico che decora una oscura cella in San Marco. Nel tempo del contagio e del controllo, che ci vuole tutti visibili, misurabili, in salute, scavate il nascosto. Azioni remote, sfiduciando canoni e classifiche. Azioni minime, inutili alla propria fama nel convegno umano – perciò, di illimitata limpidezza. Ad esempio, ho preso a nuotare di notte, in mare – ormai lo ripeto anche al vento tanto ne sono eccitato. La sfera oscura rende incredibile una destinazione: di me non vedo neppure le mani, che consegno all’acqua, gelida, come un patto nuziale. Non distinguo la luce delle stelle da quella di alcune rare navi, in fondo, nell’al di là della tenebra. Nessuno mi vede entrare in mare, nessuno uscire; l’Adriatico ha una virtù docile, ma spesso, nuotando, mi dico, e se proseguissi, fino a non ricordare la riva? Il caldo estatico del corpo prima trova un equilibrio, una noce di calore, è vinto dal freddo, che martirizza ogni gesto. Finché non ti fermi, guardi le nuvole, dalle forme ferali, e ti consegni, cadi. Non sfido il mare a tal punto: mi sembra un privilegio che mi permetta di nuotare, solo, la sera, quando l’acqua sembra acciaio liquido e ogni movimento una scossa elettrica. Mi basta questo per sentirmi – stupidamente – un uomo vivo, neppure un uomo, una bava nel tempo.

Il ‘bel gesto’, scevro dalla trigonometria del narciso, è, infine, ciò che va fatto perché va fatto. La convinzione che l’uomo esige i gesti incompresi, anomali, assurdi. Varlam Šalamov, l’immenso aedo dei Gulag – se si può cantare, con disincanto, l’orrore – racconta di chi, in punto di morte, preferisce cedere la propria porzione di cibo a un altro, sconosciuto, altrettanto fiaccato, perché sia lui a salvarsi. Abiurare perfino le leggi naturali della sopravvivenza: non è questo un uomo? Dare la primizia di sé perché un altro se ne nutra, senza altra riconoscenza che l’irriconoscente. Il ‘bel gesto’, in realtà, elude i ringraziamenti, è saltato oltre gli applausi, non sa nemmeno se è ‘bello’: lo diranno – forse – gli altissimi, i futuri, i millenni a venire. “Capisco che un maestro rigoroso cresca e viva negando e distruggendo se stesso”, scrive Šalamov a Boris Pasternak.

“Ma io ricordo e so anche un’altra cosa. Conosco persone che sono vissute grazie ai Suoi versi, grazie alla percezione del mondo che i Suoi versi comunicavano… Ha mai pensato a questo? Agli esseri umani che sono rimasti esseri umani soltanto perché con sé avevano le sue parole? Che i suoi versi venivano letti come preghiere?”.

Šalamov parlava dei prigionieri che nei Gulag si scambiavano, come il pane, le poesie di Pasternak. Mi commuove questa lettera. Scrivere poesie interrompe l’ordine rapace del mondo: che senso ha scrivere poesie, dedicare il cuore del proprio tempo al linguaggio, senza altro potere che la caduta nel verbo? Ma è un ‘bel gesto’, alto e inutile, perfino leggere i grandi poeti, farsi dettare il destino dai loro versi, capitolare, stare al cospetto di un canto, nell’antiporta, farsene cintura.