Per restare con i piedi a terra

 

SAKKI

 殺気

“INTENZIONE DI UCCIDERE”

«Un giorno, mentre Yagyu Munenori stava contemplando i fiori di ciliegio in un giardino, un servitore armato di spada, pensò, guardandolo: “Anche se il mio signore è un grande maestro di spada, se lo attacco da dietro mentre la sua attenzione è deviata, non sarà in grado di difendersi”. All’improvviso Munenori osservò l’ambiente intorno a lui ed entrò in casa per sedersi. Si appoggiò a un palo e rimase per diverse ore senza dire una parola. I servi, ansiosi di vederlo così, vennero a incontrarlo. Uno di loro osò chiedergli: “Da qualche tempo il tuo umore è cambiato, c’è qualcosa che ti tormenta?”. Munenori rispose: “Sto pensando a qualcosa che non capisco. Dopo anni di allenamento, quando i nemici mi attaccano, posso sentire la loro volontà di uccidermi prima di combattere. Prima, mentre guardavo i ciliegi, ho sentito il sakki. Mi guardai intorno, ma non c’era nessuno tranne il mio servo, nemmeno un cane. Non ho trovato nessuno che potesse essere un nemico. Ho pensato che fosse a causa di una mancanza di progressi che ho sentito. In quel preciso istante, il servitore che portava la spada si scusò: “In verità, proprio ora, guardandoti, pensai che in quel momento avrei potuto ucciderti con la spada”. Allora Munenori, con un’espressione soddisfatta, disse: “Bene, ho capito”».

Kenji Tokitsu, Lo zen e la via del karate

Alla luce del brano proposto, ci si può (o forse ci si deve) chiedere se nel moderno I-AI, soprattutto in quello esercitato da europei ed occidentali in genere, sia davvero presente almeno un accenno di SAKKI, parola il cui primo ideogramma 殺 satsu significa uccidere, e che, per esser chiari, nulla ha a che vedere con lo sportivo “fighting spirit”.

Si può forse affermare che trattandosi di una Via marziale (Iai-Do), e non di un’arte marziale (iai-jutsu) concernente la pura tecnica letale, l’espressione “intenzione di uccidere” sembri del tutto fuori luogo, se oltretutto si tiene presente che altro è uccidere un avversario reale che oppone resistenza col proprio corpo e con la propria capacità di combattere e altro è “uccidere” un avversario virtuale (kaso teki) e quindi fisicamente e tecnicamente inconsistente.

E, di conseguenza, altro è rischiare di perdere la vita contro un avversario dal sakki più potente e altro è rischiare di perdere una gara o la bocciatura ad un esame, oltre a non rischiare nulla durante l’allenamento ordinario; e, ancora, altro è la trance agonica su cui incombe l’alea mortale e altro è lo stress da gara o da esame. Non sarà necessario insistere sul fatto che i due piani sono nettamente diversi.

Né ci sembra il caso di accostare a sakki tanto seme/semeru la pressione minacciosa che si esercita sull’avversario, quanto tatakau ki, lo spirito del combattimento, visto che insieme all’avversario si terminerà puntualmente indenni il “combattimento”. Di conseguenza, riteniamo che il sen no sakki, la facoltà intuitiva che permette di percepire un’onda aggressiva (sakki) prima ancora che abbia assunto una forma fisica, debba essere riferita allo Iai-Do con estrema prudenza.

Il tutto, senza dire dell’«esperienza magico-religiosa che modificava radicalmente il modo d’essere del giovane guerriero» (Mircea Eliade, La nascita mistica), per nulla contemplata dalla Carta del Budo (Budo Kensho).

da: Mircea Eliade, La nascita mistica

     «Quello che più ci interessa in questa sede è di far emergere la struttura dell’iniziazione in forza della quale il giovane diventava un guerriero-belva. La prova guerresca per eccellenza era il combattimento individuale, condotto in modo tale che finiva per scatenare nel neofito il ‘furore del berserkir’ (nelle saghe nordiche i berserkir erano, letteralmente, ‘i guerrieri in pelle – seker – d’orso’).

Non si trattava soltanto di una prodezza militare. Non si diventava berserkir unicamente per bravura, per forza fisica o per capacità di sopportazione, ma in seguito a una esperienza magico-religiosa che modificava radicalmente il modo d’essere del giovane guerriero. Costui doveva trasformare la sua umanità con un  accesso di furia aggressiva e terrificante, che lo rendeva simile ai carnivori infuriati. Egli si ‘scaldava’ fino a  un grado estremo, travolto da una forza misteriosa, inumana, irresistibile, che il suo slancio combattivo faceva scaturire dal più profondo del suo essere.

Gli antichi Germani chiamavano questa forza sacra wut, termine che Adamo di Brema traduceva con furor: una specie di frenesia demonica che riempiva di terrore l’avversario e finiva per paralizzarlo. L’irlandese ferg (letteralmente ‘collera’), il menos omerico sono equivalenti quasi esatti della stessa terrificante esperienza sacra, specifica dei combattimenti eroici. J. Vendryès e M.L. Sjoestedt hanno mostrato che certe designazioni dell’‘eroe’ in irlandese antico si riferiscono all’ “ardore, all’eccitazione, al ribollimento”. Come scrive M.L. Sjostedt, “l’eroe è il furioso, posseduto dalla propria energia tumultuosa e bruciante”. In molte delle sue opere, e in particolare in Horaces et le Curiaces, George Dumezil ha brillantemente interpretato tutte queste espressioni dell’ardore eroico, dimostrando la loro appartenenza alle prove iniziatiche militari».

Ora, il moderno I-AI può concepire «l’ardore eroico»?

Meglio rimanere con i piedi a terra. Specialmente usando una spada.