Un bagliore di Bushidō

da musubi.it/it/costume/testi/351-barthes

Recensione a Roland Barthes, L’impero dei segni – Piccola Biblioteca Eianudi

Roland Barthes (1929-1980) è stato un innovatore della critica letteraria e della semiotica, la scienza delle comunicazioni. Ebbe una intensa carriera accademica e a partire dagli anni 60 i suoi studi e le sue proposte lasciarono segni profondi nella teoria delle comunicazioni, non solo scritte.

A partire dal 1966 effettuò tre viaggi in Giappone, che hanno ispirato questo libro.

[…]

Perché questo libro, e perché proprio sul Giappone? Lasciamo che ce ne indichi le ragioni lo stesso Barthes:

«Perché il Giappone? Perché è il paese della scrittura: fra tutti i paesi conosciuti, è in Giappone che io ho incontrato la pratica del segno più vicina alle mie convinzioni e ai miei fantasmi, o, se si preferisce, più lontana dai disgusti, irritazioni e rifiuti che suscita in me la semiocrazia occidentale».

Il luogo dei segni non è cercato negli aspetti istituzionali, ma nella città, nel negozio, nel teatro, nella cortesia, nei giardini, nella violenza. Ci si occupa di alcuni gesti, di alcuni cibi, di alcune poesie; ma soprattutto di volti, di occhi e di pennelli con cui si può scrivere, ma non dipingere, il tutto.

Ci sembra di raccogliere un spunto importante nella proposta di Barthes soffermandoci su una foto pubblicata nel libro alle pagine 110 e 111. Raffigura il generale Marisuke Nogi, assieme alla moglie Shizuko.

(Ndc – Shizuko, la sposa del generale Marisuke Nogi, si diede la morte assieme al suo uomo mentre la salma dell’imperatore Meiji  Matsuhito lasciava il palazzo imperiale, nel 1912. Nogi aveva chiesto di compiere seppuku per espiare la colpa di avere perso numerosi uomini (compresi i due figli) nel suo vittorioso assedio di Port Arthur (guerra russo-giapponese 1904-1905). L’imperatore glielo aveva proibito finché lui fosse stato vivo).

La didascalia ha l’aria di essere stata scritta dalle stesse mani di Roland Barthes, e forse non sarà così, ma certamente è quella l’impressione che vuole dare.

Recita: «Ils vont mourir, ils le savent et cela ne se voit pas».

«Stanno per morire, lo sanno e non si vede».

Cosa è che ha colpito particolarmente l’autore in questa immagine?

Certamente il segno, non affidato come di consueto alla parola scritta, che i coniugi Nogi hanno inteso lasciare al mondo nel momento estremo in cui hanno deciso di abbandonarlo.

Barthes ha compreso che nella cultura tradizionale giapponese si tende ad utilizzare un linguaggio globale, in cui i segni, i messaggi sono molteplici ed espressi in multiforme maniere, attraverso il pensiero ed attraverso il corpo, in forme sia esplicite sia laconiche quando non addirittura apparentemente assenti del tutto.

Il pensiero giapponese si esprime a volte, vorremmo dire spesso, attraverso dei silenzi, delle apparenti assenze di comunicazione, delle apparenti rinunce.

Passando dalla cerimonia dell’inchino al pachinko, un gioco di azzardo meccanico che costituiva per molti giapponesi un vero e proprio morbo compulsivo e lo costituirebbe tuttora, se non fosse stato sostituito da altri sistemi ancora più pervasivi, dalla gioiosa arte di confezionare pacchetti (tsutsumu) che manifesta senza alcuna remora il piacere di donare alla elusiva arte della poesia che per citare le sue parole lavora sulla “effrazione del senso” piuttosto che sulla sua esaltazione, Barthes esplora il linguaggio onnipervadente della cultura giapponese.

Con l’acuto spirito di osservazione dello straniero immerso in una civiltà lontana dalla sua formazione, Barthes non si lascia sfuggire la peculiarità dei sistemi giapponesi di classificazione – o per meglio dire NON classificazione – delle strade, di espressione dei moti dell’animo attraverso la riduzione all’essenziale piuttosto che all’esaltazione ed enfatizzazione del particolare. Degli infiniti segni che Barthes coglie nell’impero dei segni la maggior parte sono infatti visivi, non scritti, non tracciati sulla pietra o fissati indelebilmente su un supporto, ed anche quando lo sono, negano quanto apparentemente affermano. Possiamo dire per questo che anche qui Barthes adopera una camera lucida: riflette sul Giappone attraverso lo specchio del suo raziocinio, ma non perde di vista la realtà, ove il raziocinio ostacola piuttosto che risolvere.

È veramente bizzarro pensare che un popolo così prodigo di segni, per quanto appartenenti ad un modo di esistere diverso dal nostro, passi per impenetrabile, e la proposta di Barthes può darci lo sprone per liberarci almeno in parte dei pregiudizi che ci impediscono di cogliere appieno il senso di questo linguaggio.