TEN-ZIN-TI
23 Febbraio 2023
La figura qui sopra è tratta, come il brano che viene appresso citato, da Pietro Silvio Rivetta (Toddi), IL PAESE DELL’EROICA FELICITÀ, Hoepli 1941: un testo indispensabile per acquisire sempre maggiore consapevolezza della spiritualità e della cultura che c’è dietro lo I-AI, ciò preservando da concezioni distorte che inficiano l’uso della Nihontō.
天 人 地
ten zin (jin) ti (chi)
cielo uomo terra
In ogni manifestazione della sua vita, il Giapponese si sentì e si sente sempre intimamente legato alla sua terra fiorita.
Abitualmente viene tradotto con “fiore” il vocabolo giapponese hana, ciò che è esatto e inesatto al tempo stesso.
Il nostro “fiore” non può tradursi altrimenti che con hana: ma il sostantivo giapponese ha un significato molto più vasto, poi che non comprende soltanto le infiorescenze: non ha insomma un significato rigidamente botanico, ma decorativo, poetico e semtimentale. Un ramoscello con poche foglie non può forse dare, in un vaso, letizia visiva anche se privo di petali, e non può una pianticella campestre, pur se non fiorita, portare il suo decorativo contributo nella ikebana ossia nell’arte di saper disporre i fiori con simbolica armonia?
Anche se interamente spalancata è la parete che dà sul giardino, una stanza giapponese non è viva se il tokonoma non abbia la sua vegetale decorazione. Il tokonoma, la nicchia che dà tono all’ambiente e lo anima, corrisponde sentimentalmente al nostro focolare: però il nostro focolare può essere spento, o può anche materialmente non esservi neppure, e la camera non sarà per questo meno abitabile. Nessuna vera stanza giapponese, invece, è sprovvista del tokonoma, né in questa può mancare lo ikebana che le dia vita.
Il vocabolo è soltanto parzialmente inteso quando lo si traduce con “decorazione floreale”: ikebana significa “fiori viventi” (il vocabolo è composto con ike, tema di ikeru “vivente”, e bana per hana), ed è appunto questa l’essenza fondamentale di tale arte: disporre i fiori in modo che essi conservano la loro vivente e vivificante personalità.
Pur nei modernissimi programmi scolastici femminili, alla ikebana non si dà minore importanza che a quello delle lettere e delle scienze, poiché la scienza suprema è quella della felicità, procurata dalle gioie dello spirito.
E per la stessa ragione, tutte le riviste per pubblico femminile dànno largo spazio ad articoli sulla ikebana. E, se il quarto syôgun della famiglia degli Asikaga è ricordato nella storia giapponese come gran guerriero, egli non è meno famoso pr esser stato l’arbiter elegantiarum tra i condottieri di eserciti: al suo gusto e alla sua raffinatezza si deve l’impulso dato alla ikebana, arte maturatasi nel tempio Ginkakuzi, il “padiglione d’argento”, costruito da Yosimasa per ritirarsi a vita contemplativa, dando impulso ad ogni genere di arte.
Infelice è il Giapponese nella cui stanza non vi siano almeno tre ramoscelli in un vaso, a ricordargli la Natura, della quale egli fa parte anche se sia costretto a lavorare fra rigide pareti semi-carcerarie e semi-cliniche di stile 900, in un ufficio ove la brutalità delle cifre lo obblighi ad un arido lavoro contabile.
Potrà adattarsi a sedere su una sedia, invece che adagiarsi sulle accoglienti tatami; ma perché dovrebbe rinunciare alla gioia che tre soli rami, in un vaso, possono dargli, ricordandogli, con la loro disposizione simbolica, l’armonia tra la natura e gli esseri umani?
Anche nella ikebana l’osservatore superficiale può non scorgere che un raffinato particolare decorativo dell’arredamento, senza intenderne cioè il significato più profondo e il suo contenuto spirituale. Ad un Giapponese la ikebana insieme con il suo kakemono, dice ben altro. I tre rami fondamentali simboleggiano rispettivamente il Cielo, la Terra e l’Uomo (ten, ti, zin): ma la varetà delle disposizioni fa sì che, tra questi tre elementi simbolici fondamentali, intercorra un rapporto significativamente sempre diverso; con pochi fiori, oppure soltanto con verdi ramoscelli armonizzati, si può comporre un piccolo poema, che non è facile tradurre in parole, ma del quale ogni Giapponese sa intendere il sentimentale e lirico significato.
Perciò, quando la padrona di casa, in attesa degli ospiti o del marito, prepara nel tokonoma la floreale decorazione, ella non compie soltanto un’operazione materiale a scopo estetico: traduce nella botanica disposizione un pensiero specifico e profondo che nessuna parola potrebbe esprimere. E compie perciò con gioia questa sua importante mansione, ponendo in ogni gesto lo stesso rispettoso amore che prova una persona religiosa nel decorare un altare.
Quindi persino questi preparativi sono per lei causa di letizia, quanto lo saranno per coloro che, entrando nella stanza, rivolgeranno al tokonoma il primo sguardo ammirativo e il primo commento.
Né essi lo faranno per semplice etichetta formale; un sentimentale – e sentito – contenuto accompagnerà, come sempre, il gesto e le parole. Così essi si sentiranno intonati all’ospitalità dell’ambiente: lo ikebana costituisce un vegetale legame di cordialità: la Natura interviene, anche fra le pareti di una stanza, a rinforzare i rapporti domestici e sociali.
Soltanto intendendo tutto ciò si può comprendere perché una lettera giapponese, subito dopo la formula d’inizio, non manchi mai di un’allusione alla natura, accennando al clima, alla fioritura …
Un trattato di stile epistolare chiama queste espressioni “complimenti di stagione”.
Noi iniziamo la nostra corrispondenza con un “caro amico” o un “egregio signore”: alla cordialità e al rispetto i Giapponesi chiamano partecipe la Natura: quella, cioè, che collega fra loro “i Cielo, la Terra e l’Uomo”.