Sakkatsu jizai
10 Maggio 2023
Premessa importante
Tutto ciò che in quanto segue è riferito alla Spada va inteso anche come riferito alla Mente, secondo l’insegnamento di Takuan Soho:
Tai-A è il nome di un’antica spada cinese che non ha eguali sotto il cielo […] non vi è nulla che possa opporsi a questa lama. La persona che ottiene questa misteriosa abilità increata non vacillerà dinanzi al comandante di enormi eserciti, né davanti a una forza di centinaia di migliaia di nemici […]. È una questione di mente. La mente non è nata con la tua nascita e non morirà con la tua morte. Poiché questo è vero, si dice che sia il tuo Volto Originario. Il Cielo non può coprirlo. La Terra non può sostenerlo. Il Fuoco non può bruciarlo, né l’acqua può bagnarlo. Nulla sotto il cielo può ostruirlo». (Annali della spada Tai-A).
Fra i 22 precetti del “Credo del Samurai” né figura uno piuttosto arduo da comprendere e ancor di più da realizzare:
«Non ho strategia: sakkatsu jizaiè la mia strategia».
Ora, sakkatsu jizai殺活自在 significa letteralmente: libero di uccidere e di lasciar vivere; libero di dare la morte o la vita:
殺 sa(tsu) uccidere
活 katsu (far)vivere
自 ji (da) se stesso
在 zai liberamente
ciò rappresentando un terreno non proprio agevole su cui muoversi già al solo considerare la distinzione dovuta a Yagyū Munenori(1571-1646), grande spadaccino dell’Epoca Sengoku (Sengoku Jidai, XV e XVI secolo), riguardo all’uso della spada:
satsujinken 殺人剣 la spada che dà la morte,
katsujinken 活人剣 la spada che dà la vita,
ovvero la spada nelle sue due funzioni impossibili da scindere, poiché la spada che dà la morte (satsu殺) lo fa – con onore! – dopo aver fatto di tutto per evitarlo ed esclusivamente per proteggere la vita (katsu 活). È perciò da escludere una spada che dia soltanto la morte, che in fondo è quella del sicario assassino.
Pertanto, può risultare utile mettere insieme alcune considerazioni le quali, pur non potendo essere direttamente dirimenti, possano almeno lumeggiare il sostrato di quel “libero di uccidere e lasciare in vita” che, si può intuire, si riferisce ad uno stato interiore di libertà ed equità (fudoshin 不動心) piuttosto elevato, se non addirittura il più elevato, e che da chi non lo ha realizzato può essere soltanto vagheggiato. Non per nulla il titolo di kensei 剣聖: “santo della spada”, si riferiva in passato allo spadaccino che all’estrema perizia nell’uso della spada accompagnava un elevato grado di perfezione morale grazie a cui sapeva evitare spargimenti di sangue.
Per questo, a kensei剣聖 può corrispondere tatsujin 達人:
tatsu 達: significa raggiungere, jin 人: persona.
«Tatsujin è un concetto giapponese che rappresenta un essere umano completamente auto realizzato o una persona completa. È uno stato di coscienza più elevato, non inibito dalle debolezze della nostra personalità che ci rendono intrinsecamente umani. È una mente libera dai desideri dell’ego e capace di vedere la vita attraverso gli “Occhi e la Mente di Dio”, come una volta aveva detto Takamatsu Toshitsugu Sensei. (tatsujindojo.wordpress.com).
Vale la pena di sottolineare: «vedere la vita attraverso gli “Occhi e la Mente di Dio”».
Pertanto, è certo che l’utilizzo della spada privo della sincera volontà di «essere sulla strada di tatsujin» sia del tutto fuorviante ed induca ad aggiungere filtri di fraintendimento col conseguente consolidarsi dell’Illusione che occupa la coscienza.
«Il samurai deve innanzitutto ricordare costantemente, giorno e notte, dal mattino quando prende i bastoncini per consumare la sua colazione di Capodanno fino alla sera dell’ultimo dell’anno quando paga i suoi conti annuali, il fatto che deve morire. Che è il suo dovere. Se terrà sempre a mente questo, sarà in grado di vivere seguendo i sentieri della Lealtà e della Pietà Filiale, eviterà innumerevoli avversità e sfortune, terrà lontane le malattie e le calamità e, soprattutto, godrà di una lunga vita. Possiederà inoltre una gradevole personalità dalle molte ammirevoli qualità».
Daidoji Yuzan (1639-1730), Budo Shoshinshu– Insegnamenti Essenziali sulla Via del Guerriero.
Chi si esercita con la spada giapponese lo fa con la spada del samurai (che è un’arma!), e perciò se trascura o addirittura dimentica che deve morire, e che ogni istante può presentargli questa eventualità, finirà per travisare il senso dello shugyo 修行 (la disciplina) come anche del keiko 稽古 (la considerazione e il rispetto per le cose antiche).
Con l’Arte della spada si impara ad uccidere, ma va da sé che ciò comporta anche accettare la prossimità della morte. Estraendo la spada si può dare la morte ma si può anche riceverla. I maestri giapponesi dicono infatti che quando si estrae occorre profondamente sentire che ci si sta giocando la vita. Quindi, occorre esser pronti non solo a dare la morte ma anche a riceverla. Ed è fuor di dubbio che non si tratta di qualcosa immediatamente a portata di mano, poiché si tratta di mimare 真似る(che è di più che imitare) il comportamento samuraico.
Saper tagliare e togliere una vita è il primo livello di maestria nell’Arte della spada. Ma questa non è vera maestria. Un livello più alto consiste nello sconfiggere l’avversario senza ucciderlo, solo ferendolo, e ad un terzo livello ancor più alto, senza neanche ferirlo: questa è la vera maestria nell’Arte della spada secondo Yagyu Munenori. Essere talmente abile da sconfiggere l’avversario inducendolo ad arrendersi per ferita (secondo livello di maestria), oppure avendo una presenza mentale e fisica talmente possente (ki-seme, fukaku, kigurai) da intimidirlo, demoralizzarlo, meglio ancora convincerlo senza l’uso della spada, ciò costituendo la più alta realizzazione di saya no uchi de katsu 鞘の内で勝つ: vincere con la spada nel fodero, o anche nukazu ni sumu: (dirimere le dispute) senza sguainare la spada
Questa filosofia è simboleggiata nelle tre prime forme (kata) di Kendo.
Ippomme – Il kata numero uno è la vittoria uccidendo l’avversario. Un taglio alla sommità della testa.
Nihonme – Il Kata numero due è la vittoria ferendo l’avversario, colpendolgi l’avambraccio destro.
Sanbonme – Il Kata numero tre è la vittoria attraverso la tecnica e il morale. Sconfiggere l’altro senza causargli alcun danno.
In ogni caso, è bene ribadirlo, la capacità di estrarre la spada e tagliare comporta la consapevolezza di poter essere tagliati; d’avere accanto la morte giorno per giorno, “da capodanno a capodanno”, come afferma Daidoji Yuzan.
L’IDEA DELLA MORTE: è questa l’idea TRAMUTANTE la mente e il corpo, che comporta la scomparsa dello sguainare in vista … dell’ottenimento del grado, trappola in cui è assai facile cadere.
È l’ASSUNZIONE IN CARNE, SANGUE E OSSA dell’idea della morte che conduce a seishi o choetsu 生死を超越: trascendere la vita e la morte.
Vivere da già morti: questa la suprema libertà.
Si conclude con un brano particolarmente profondo e ‘scottante’ di Mishima in “Sole acciaio”, che, almeno, dovrebbe aiutare a restare con i piedi in terra e con grande umiltà nel confronti dell’Arte della spada giapponese, onde evitare di scadere o permanere in un pratica deviata, cui accenna lo stesso Mishima in chiusura del brano.
«L’accettazione della sofferenza come prova di coraggio era il tema principale dei remoti e primitivi riti di iniziazione che, tuttavia, erano anche cerimonie di morte e di resurrezione. Oggi gli uomini hanno dimenticato che nel coraggio, soprattutto nel coraggio fisico, si cela un conflitto profondo tra coscienza e corpo. La coscienza sembra passiva e il corpo, che agisce, pare l’essenza dell’ardimento, ma nel dramma del coraggio fisico le parti s’invertono. Il corpo si ritira decisamente nella propria funzione di auto-difesa: è esclusivamente compito di una coscienza lucida la decisione di richiamare il corpo e di indurlo all’abnegazione. Il culmine della lucidità della coscienza è il movente più forte dell’abnegazione.
La funzione del coraggio fisico consisterà sempre nell’accettare la sofferenza; in altre parole, il coraggio fisico è la fonte del gusto di capire e di assaporare la morte ed è anche la prima condizione della facoltà di comprenderla. Per quanto un filosofo da tavolino possa elucubrare sulla morte, se gli è estraneo il coraggio fisico, che è la premessa per acquisire la capacità di comprendere la morte, non riuscirà ad afferrare neppure un frammento della sua vera natura. Voglio precisare che parlo di coraggio “fisico” e non mi interessa ciò che viene definito “la coscienza dell’intellettuale”, oppure il “coraggio dell’intellettuale”.
D’altronde vivevo in un’epoca in cui il bastone di bambù non era più un simbolo diretto della spada, e la spada autentica dello iainuki serviva solo a fendere lo spazio».