L’apprendimento muto e antico del corpo
13 Giugno 2023
di Tiziana Verde (kenzenichinyo.blog)
Storicamente lo Zen affonda le sue radici nel lungo viaggio che il buddhismo indiano delle origini fa attraverso la Cina, assorbendo posizioni del pensiero taoista e penetrando successivamente in Giappone. La sua nascita è quindi nella confluenza di due tradizioni antiche: quella indiana e quella cinese, e infine nel suo permanere all’interno della cultura giapponese. Questa complicata genesi costituisce già una prima difficoltà ad addentrarsi nelle questioni che la sua visione affronta. La seconda difficoltà per un occidentale, è che lo Zen, sebbene indichi una via di salvezza, non è propriamente né una religione né una filosofia, sebbene in qualche modo intrecci aspetti della ricerca sia filosofica che religiosa. Non lo è, anche perché lo Zen pone – a suo fondamento – un approccio di mente, corpo e cuore, e proprio ai modi consueti di catalogare la realtà, allo stesso sentire in termini dualistici, contrappone quella natura originaria che precede le convenzioni del linguaggio apprese crescendo. Si potrebbe dire che la classificazione delle certezze, a partire da una discriminazione, è precisamente quanto la pratica zen vuole mettere in crisi.
Forse Proust lo spiega bene quando nella Recherche, tentando di descrivere le sorprendenti prospettive e i giochi di luce del pittore Elstir dice: «I nomi che designano le cose corrispondono sempre ad una nozione d’intelligenza, estranea alle nostre autentiche impressioni e che ci obbliga ad eliminare da esse quanto non abbia rapporto con tale nozione. Ora, se il Padreterno aveva creato le cose nominandole, Elstir le ricreava togliendo loro il nome o dandone un altro […] e lo sforzo che faceva per spogliarsi in presenza della realtà di tutte le nozioni della sua intelligenza era tanto più ammirevole in quanto quest’uomo che, prima di dipingere si faceva ignorante e dimenticava ogni cosa, aveva in effetti un’intelligenza eccezionalmente coltivata».
È proprio a queste ‘autentiche impressioni’ che lo Zen tenta di accedere, facendo come il pittore lo sforzo di spogliarsi della realtà e anche da un certo tipo di intelletto. In questo cambio di prospettiva, il nucleo di esistenza solitamente attribuito all’essere, all’identità, al tempo … si fa molto più fluido, non si tratta di un aut aut, ma si un et et, non di sostanze ma di relazioni, di cogliere simultaneamente lati contrari, il punto in cui le cose si generano in-distintamente. Questo punto è espresso dalla nozione del ‘Vuoto’, cioè dall’intreccio mutevole di quanto continuamente compare, scompare, muta, si dissolve; una forma dunque estremamente mobile a cui illusoriamente atribuiamo una rigidità, certe precise qualità, una durata.
Tale ‘errore’ o attitudine a voler scorgere permanenza laddove non c’è, genera come conseguenza un attaccamento che è fonte di continua smentita. Inoltre il pensare in termini di bene/male, vero/falso … porta a perseguire un solo lato della medaglia e ad evitarne il rovescio, tentativo non solo frustrato, ma che fa ricadere sempre negli stessi lacci di: profitto o perdita, pena del domani che non viene, dell’ieri che troppo presto è passato … Per spezzare quest’associazione meccanica la nozione del vuoto viene espressa dal silenzio o dal ribaltamento dei luoghi comuni del linguaggio. Da qui le risposte proverbiali e paradossali che i maestri davano al discepolo incartato in un concetto che, facendo da filtro, offuscava la sua più autentica percezione.
Lo sguardo che lo Zen tenta, è dunque una contemplazione del ‘così’, prima dell’abitudine, del giudizio o della volontà secondo quel giudizio. Questo graduale spogliarsi, avviene attraverso un via eminentemente pratica: la postura dello zazen (del sedersi) e l’attenzione cerimoniale ai gesti più consueti. La postura è la fede che a partire dalle ossa, dal respiro, si potrà indebolire la presunzione della mente di concepirsi intorno ad un’idea di sé; che dando voce ad un apprendimento muto e antico del corpo, si metterà a tacere l’impero dei propri preconcetti.
Presupposto alla fatica e tensione dello zazen è questa forma vuota, che intreccia e disfa molte certezze e di cui la liberazione (ma potremmo dire la libertà) è allo stesso tempo principio e fine. (Forse quando Eleonora Pimentel Fonseca scriveva sul Monitore, durante i pochi mesi di vita della Repubblica partenopea: “La libertà l’hanno solo i popoli liberi”, enunciava, aldilà dell’apparente tautologia, la stessa profonda verità, giacche nessuna libertà arriva ad essere davvero ri-voluzione se non è prima sentita come uno stato, uno spazio).
Della pratica zen fa parte anche la scansione rituale del tempo, che include la quotidianità del dormire, del mangiare, del lavoro … ed è rigoroso apprendistato a compiere – data l’infinita intersezione che ci com-prende – gesti accorti. Questa educazione o buon governo di terrestre e irreale pretende la pratica di una vita, un allenamento dei sensi contrario al ‘guarda e passa’, il più amoroso fermarsi. Nasce anche dalla consapevolezza che non esiste intervento innocuo, che ogni azione pianta radici, getta semi, influenza profondamente. Proprio l’attenzione è infine all’origine della com-passione, del consentire … essa porta a quel sentimento di solitudine interrotta e attraversata dal tessuto di molti inesplicabili ‘accanto’.
In una delle sue tante e trascurate intuizioni, Anna Maria Ortese descrive questo vasto sfondo di cui percepiamo appena una vaga presenza: “Forse lo spirito non è nave, ma solo continente che viaggia. Continente sommerso! Nascosto! Sembra debole nave solo perché viaggia e poco ne emerge. Ma è continente grandioso!”.
Smemorati, passeggiamo in una sera di primavera al crepuscolo. L’ultima striscia malva in fondo al cielo, la prospettiva degli alberi, il tempo che succede al tempo. Sono state previste le ore di sole e d’ombra, l’inverno e l’estate, il disegno dei diversi rami … la breve strada che si snoda tra palazzi nemmeno tanto amabili di una qualsiasi città, è strada di firmamento … tutto immensamente predisposto, dall’erba alla nuvola, all’orizzonte dove è apparsa la prima timida stella … Sentire tutto questo contemporaneamente … come un mendicante che si trovi all’improvviso un diamante in tasca o uno che si è risvegliato dallo stare sveglio.