Lo Iai è mimica – 1

Indubbiamente, l’evoluzione da jutsu a , cioè da “tecnica” a “via”, ha comportato una nuova concezione del brandire la spada giapponese: non più iai-jutsu bensì iai-dō, cioè non più “arte marziale” bensì “via marziale”, e non più bu-gei, “arti del combattimento”, bensì bu-dō, “vie del combattimento”.

Non che il jutsu sia dimenticato: le tecniche costituiscono pur sempre la “materia prima” dell’esercitazione; tuttavia esse, non concernendo più l’efficacia letale sul corpo dell’avversario e il subirla sul proprio, passano decisamente in secondo piano rispetto al , il cui ideogramma non lascia adito a dubbi.

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 nella lettura “on” e Michi nella lettura “kun”, significa “Via” nel senso di “percorso interiore”, “metanoia”, ovvero Via all’Illuminazione.

Il radicale首kubi (lettura kun) o shu (lettura on), rappresenta la testa di un personaggio importante intuibile dall’acconciatura dei capelli raccolti in due chignon (come era uso fare anticamente dalle persone di un certo rango), che ha piena consapevolezza di sé (mostra il suo volto) e cammina speditamente sulla strada che ha scelto lasciando delle tracce per coloro che intendono seguire lo stesso sentiero.

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首   

Il radicale) 辶, che è la semplificazione di 辵,ideogramma che si legge shinnyō (lettura kun) e chaku (lettura on), e significa “l’avanzare”, costituisce l’impronta di un piede di un uomo che cammina a grandi passi. Un cammino determinato da un motivo importante che incide sulla volontà dell’uomo. Ecco perché talvolta viene usato nel senso di progresso. Qui sotto, l’evoluzione del radicale.

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Quindi l’intero Ideogramma  può essere tradotto anche come “Tradizione”, cioè trasmissione di un sapere orientato e “incamminato” verso la Luce. E tenendo presente che anche tale percorso implica una morte: quella del piccolo io (shoga), cioè dell’io empirico, dell’io illusorio, della coscienza auto-referenziale, del mostro egocentrico che va ucciso.

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Il fatto che lo iai-dō contempli il kasō teki, cioè l’avversario invisibile, virtuale, esige che il Praticante sia un MIMO. Precisamente, col maturare del suo studio teorico-pratico, il Praticante andrà sempre più IMMEDESIMANDOSInel duellante proprio come un mimo e quindi come un INTERPRETE del duello, e tenendo presente che – qui risiedendo un punto importantissimo che analizziamo più avanti – MIMARE NON È IMITARE. Il Praticante non imita il duellante bensì, assai diversamente, lo mima.

In Iaidō shinsan no me (Gli occhi dei giudici nello iaidō) Ueno Satanori sensei dice:

«Nello iaidō l’avversario (teki) è invisibile (kasō): non possiamo vederlo, ma dobbiamo “materializzarlo” e tagliare dove dovrebbe essere. Questo è uno dei più importanti concetti dello iaidō. Tagliare un’area dove l’avversario non è stato “materializzato” non ha senso ed è solo compiacimento. Penso che se anche l’avversario non è reale, dobbiamo “materializzarlo” precisamente dove si trova e capire cosa sta facendo. Questo è ciò che da senso alla nostra pratica».

Ora, per “materializzare”, ossia per “vedere” l’avversario che è armato e sta attaccando (o ha l’intenzione di attaccare), il Praticante, pena lo scadere del proprio attivarsi ad un insensato agitarsi, non potrà esimersi dal sentire anche se stesso come un duellante che la circostanza chiama all’interazione (sogō kankei) con l’avversario stesso, del quale, altro punto importante, ha da percepire il sakki, cioè la determinazione a uccidere. Diciamo inter-azione e non re-azione in quanto mentre la prima fruisce di uno stato di presenza non duale alla situazione, la seconda, per quanto subitanea, si sviluppa a seguire,ed è quindi irrimediabilmente duale, quindi egocentrica, oltre che ritardataria.

Pur trattandosi di un combattimento virtuale, ed anzi proprio per questo, il Praticante non potrà esimersi dal mimare lo spadaccino (kenshi)  e quindi il combattimento reale (shinken shobu) con … l’ombra! E non si tratta di un argomento facile, per penetrare il quale occorrono una facoltà intuitiva assai sottile accompagnata da una Pratica sincera e costante.

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Non percepibile dalla vista fisica, l’ombra di cui trattiamo è nascosta nell’aria – esterna ed interna ad un tempo – e colpisce sempre all’improvviso. «Aria, sinonimo di Aere, che è il sottil fluido che ci circonda e che si respira» (etimo.it). L’istinto di conservazione è la sua corazza. L’ombra è la consistenza tanto petulante quanto fatua della coscienza auto-referenziale, vale a dire del piccolo io (shoga), implacabile, astuto, ognora giudicante in esclusivo riferimento a sé, all’occasione ostentante umiltà ma tutto teso ad alimentarsi con l’afferrare ciò che “gli piace” e col respingere ciò che “non gli piace”, secondo un alternarsi delle due tendenze che non conosce requie.

Il piccolo io, cioè la coscienza autoreferenziale – quindi egocentrica – è il metro di sé medesimo, del suo sussistere, del suo pseudo equilibrio tra il piacere e il dispiacere, tra l’approvare e il dissentire, tra l’afferrare e il respingere. Nel non raggiungimento del piacere o nel non potersi liberare di un dispiacere il piccolo io vede una negazione di sé, un attentato alla sua incolumità, un pericolo di morte, quel pericolo rappresentato dalla Spada il cui Taglio (Kiri) dissolve ogni attaccamento, ogni legame magnetico-dualistico che imprigiona nell’afferrare il piacere e nel respingere il dispiacere: Spada che «taglia in uno la dualità» (Taiten Guareschi, Prefazione a Takuan Soho, La saggezza immutabile), ricomponendo l’essere uno del Praticante, non più dis-integrato in pensieri e desideri.

Con un breve inciso possiamo notare che pensieri e desideri possono giungere a costituire (o forse certamente costituiscono), quali diversi travestimenti del piccolo io, ciò che in giapponese viene indicato con rikombyō, termine che, come riferisce Lafcadio Hearn in Ombre giapponesi:

 «è composto dalla parola rikon, che significa ombra, spirito, spettro, e la parola byō, che significa malattia, morbo. Il significato quasi letterale sarebbe “la malattia dei fantasmi”. Nei dizionari giapponese-inglese la traduzione di rikombyō è “ipocondria”, e i medici usano questo termine in senso moderno. Ma il significato antico di rikombyō era “disordine cerebrale che produceva un doppio”, e c’è un’intera letteratura strana su questa misteriosa malattia».

“Disordine cerebrale che produce un doppio”, ovvero caos di pensieri e desideri che producono il piccolo io, l’alter ego campione di travestimento e intransigenza.

Con la Spada, pertanto, il Praticante ha da compiere un vero e proprio atto esorcistico nei confronti del piccolo io che in un modo o nell’altro, travestendosi di continuo, esercita il giudizio auto-referenziale e magnetizzante del piacere e del dispiacere. Il Kiri (Taglio) equivale all’ingiunzione esorcistica che squarcia il velo del tempo grazie al quale il piccolo io può travestirsi in pensieri e desideri e quindi come magnete che attira o respinge a seconda del suo piacere o del suo dispiacere. Senza il tempo il piccolo io non può vivere. Senza il tempo la coscienza auto-referenziale non può affermarsi. Senza il tempo il piccolo io non può erigere il velo granitico del suo giudizio inappellabile.

Il Kiri – come anche lo Tsuki, il colpo di punta– è l’Atto di Presenzadella mente e del corpo, anzi della mente-corpo, che con la sua centralità trascende e domina inesorabilmente pensieri e desideri. L’Atto di Presenza è repentino come il Kiri e lo Tsuki, e come essi si colloca fuori del tempo che è l’alimento dei pensieri e desideri la cui insidia magnetica è potente e costante.

Si comprende pertanto come senza un vero combattimento, e quindi senza un vero combattente, il taglio del piccolo io, cioè il dissolvimento dell’ombra egocentrica che offusca l’Io Puro e Lucido, resti una pura illusione. Ecco perché lo iai richiede la mimica (monomane) del duellante e perciò del duello, quest’ultimo consistendo in un bellum intestinum, ilfamoso “combattere se stessi”. Il duellante taglia l’ego che è dentro di sé proiettato e individuato – “visto” –  nell’ombra intorno a sé: il kasō teki.

Del resto, anche nello shikantaza (o zazen) al Praticante è richiesto di mimare il combattente così come nello iai:

«shikantaza è l’atteggiamento mentale di chi si trova di fronte alla morte. Immaginate di trovarvi a fare un duello di quelli che avevano luogo nel Giappone antico. Dato che state di fronte al vostro avversario, siete completamente attenti, rigidi, pronti. Se solo per un momento allentate la guardia, potete essere colpiti all’istante. Una folla di gente accorre per assistere la combattimento. Dato che non siete ciechi, vedete gli spettatori con la coda dell’occhio e dato che non siete sordi, li sentite. Ma la vostra mente non si lascia attrarre neppure per un istante da queste sensazioni».

Hakuun Ryoko Yasutani, Istruzioni introduttive alla pratica dello Zen in Dizionario della Sapienza Orientale.

La mimica esige quindi la trasformazione interiore nel duellante, quindi l’assunzione dello spirito guerriero, o, meglio, spirito cavalleresco (kokoro zashi) che rende verace tanto la scena esteriore del combattimento quanto il combattimento interiore, esteriorità e interiorità essendo sì distinte ma non separate, talché, è da precisare, il porre ordine nell’interiore (ura) e pacificarlo, è la condizione indispensabile per l’ordine e la pacificazione esteriore (omote).

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                                                                                                                                                               (continua)